Quando le parole non sono libere
La lingua italiana al tempo del fascismo

di Daniela Casillo | 30 Settembre 2025
Spesso si immagina la nascita delle parole come un evento spontaneo, naturale, frutto di una lenta evoluzione culturale e sociale. Ma la realtà è ben diversa: le parole non sempre derivano “dal basso”, cioè dall’uso comune o dall’esperienza quotidiana. Spesso, soprattutto in regimi autoritari come quello fascista italiano, le parole vengono imposte “dall’alto”, definite e scelte con un preciso disegno politico e culturale.
Durante il Ventennio fascista, la lingua italiana fu oggetto di una profonda e sistematica trasformazione, che andava ben oltre la semplice sostituzione di qualche termine straniero. Fu una vera e propria campagna di italianizzazione, volta a cancellare ogni traccia di influenze straniere.
Una lingua più "pura"
Per fare un esempio concreto, nel 1923 fu introdotta una tassa sull’ utilizzo delle parole straniere e , contemporaneamente, la Reale Accademia d’Italia, istituzione culturale ispirata all'Académie Française, si occupava di sostituire sistematicamente i “barbarismi” con neologismi italiani.
Furono coniati termini come:
- “arlecchino” per cocktail
- “sbattighiaccio” per shaker
- “quisibeve” per bar
- “lavanda dei capelli” per shampoo
- “fiorellare” per flirt
- “peralzarsi” per dessert
L’attore Valerio Aprea, in uno dei suoi noti monologhi comici e satirici, ne fece un elenco, raccontando come sarebbe la nostra lingua se usassimo ancora oggi quei termini.
Se oggi alcune di queste parole appaiono curiosamente goffe o quasi ridicole, altre riuscirono a imporsi con successo e sono entrate stabilmente nel nostro vocabolario quotidiano: “ascensore” per intendere elevator o lift, “autista” per chauffeur, “regista” per regisseur, “soprabito” per sortout, “sportello” per guichet o “libretto” per carnet.
Oltre le parole: la repressione culturale e identitaria
La campagna si estese ben oltre i termini di uso quotidiano, arrivando a toccare l’italianizzazione forzata dei cognomi, la repressione delle lingue minoritarie e la censura dei dialetti. L’attacco più radicale fu rivolto ai dialetti e alle lingue minoritarie, considerati nemici della nuova identità nazionale fascista.
A partire dagli anni Trenta, la repressione divenne una vera e propria politica di stato, con il divieto di uso pubblico dei dialetti e l’imposizione esclusiva dell’italiano. Le minoranze linguistiche come quelle tedesche, slovene e francesi subirono una forte discriminazione, con l’italianizzazione forzata di toponimi, cognomi e nomi propri, in una campagna che mirava a cancellare ogni traccia di diversità culturale e linguistica. In Alto Adige, in Friuli-Venezia Giulia e nella provincia di Trieste, migliaia di nomi di origine slovena, croata o tedesca furono italianizzati con la forza.
Alcuni esempi?
- Vodopivec diventò Bevilacqua
- Stokavaz si trasformò in Fossati
Non si trattava solo di un cambiamento anagrafico. Era una cancellazione culturale, un tentativo di negare l’appartenenza, le radici, l’identità. Come racconta Marco Pizzi nel suo libro Nameless? I danni psicologici causati dall’italianizzazione dei cognomi, questa politica lasciò traumi profondi e duraturi. Perdere il proprio nome – o vederlo trasformato contro la propria volontà – significa perdere una parte della propria storia.
La lingua come specchio del potere
Anche il mondo dello spettacolo e della cultura popolare subì l’effetto di questo dirigismo linguistico. Vennero bandite parole straniere da insegne, pubblicità, nomi di negozi, personaggi dei fumetti.
Persino Mickey Mouse fu ribattezzato Topolino, un nome che oggi ci sembra affettuosamente familiare, ma che allora fu frutto di una precisa politica culturale.
E se oggi possiamo sorridere davanti ad alcune di queste parole ormai desuete, non dobbiamo dimenticare che dietro a ogni imposizione linguistica si cela una visione del mondo, un’idea di cittadino, di cultura, di nazione.
L’eredità (invisibile) di quel linguaggio
Quel periodo storico ci lascia in eredità una riflessione importante: le parole non sono mai neutre.
Ogni termine porta con sé un’origine, un’intenzione, una visione. Alcune parole sono nate per unire, altre per escludere. Alcune per descrivere, altre per nascondere. E conoscere l’origine delle parole che usiamo ogni giorno – anche quelle più comuni – è un primo passo per prenderci cura del nostro linguaggio.
Ti consiglio di leggere il libro Le parole del fascismo di Valeria Della Valle e Riccardo Gualdo. Un testo illuminante che racconta con rigore e chiarezza come la lingua sia stata manipolata nel corso della nostra storia. Puoi iniziare da questo articolo pubblicato su Treccani.
Un film per continuare il viaggio
Se questo tema ti ha colpito, ti invito a guardare il film “Una giornata particolare” (1977) di Ettore Scola, con Sophia Loren e Marcello Mastroianni.
Ambientato proprio durante una visita di Hitler a Roma nel 1938, il film racconta la vita sotto il fascismo da una prospettiva intima, umana, delicata, mettendo in luce le contraddizioni del regime e la fragilità dei legami umani in tempi oscuri.
È un film che parla piano, ma che lascia un segno profondo.

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Ciao, sono Daniela e insegno italiano dal 2022. Ho scelto di insegnare l’italiano in modo diverso: più autentico, più vivo, più umano. Perché imparare una lingua non è riempirsi la testa solo di grammatica: è connettersi con le persone, emozionarsi, scoprire nuove prospettive.
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